BASILICA DI SAN VITTORE AL CORPO

Parrocchia prepositurale
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La Basilica

La Basilica di S.Vittore ha una storia molto antica, che inizia nel IV secolo quando veniva denominata Porziana, dal nome di Porzio, suo antico fondatore, che la edificò forse ampliando un tempio imperiale già esistente (intitolato a Ercole, divinità protettrice di Massimiano).

La storia del martirio di S.Vittore si intreccia con quella dell’imperatore, difatti Vittore era un soldato appartenente alla guardia del corpo dell’imperatore medesimo, il quale piuttosto che abiurare preferì affrontare tutti i supplizi, fino alla decapitazione e alla dispersione delle sue spoglie (qualcuno sostiene a Lodi, qualcun altro a Milano).

Le ossa del santo furono restituite ai cristiani in un secondo momento e sistemate dapprima nell’antica basilica, da cui la dedicazione “S.Vittore ad Corpus”, poi spostate in un saccello: S.Vittore in Ciel d’Oro, vicino all’attuale S.Ambrogio, unitamente al corpo di Satiro e Ambrogio stesso. Infine la reliquia ritornò in San Vittore, per merito dei Benedettini, da allora non fu più spostata se non per trovare sede definitiva nell’altare della ricostruita basilica olivetana nel 1576.

La basilica di San Vittore viene anche denominata vetus per la sua antichità, o ancora extramurana per la sua ubicazione fuori della cinta muraria della città.

 

La definizione di S.Vittore al corpo, oltre che per la presenza delle spoglie trova ulteriore interpretazione forse anche per la vicinanza con la rotonda che ospitava il mausoleo di S.Gregorio.

È solo nel 1507 quando viene ceduta (per il ridotto numero a soli due monaci Benedettini nel 1466) agli Olivetani, che ne entrano definitivamente in possesso nel 1542, che ha inizio la sua grande stagione come importante centro di raccolta per i fedeli e per la storia artistica della città.

Beato Bernardo Tolomei fu il fondatore – tra il 1313 e il 1319 – dell’ordine degli Olivetani che iniziò dalla casa madre di Monte Oliveto Maggiore (Siena) per propagarsi poi in Lombardia (Santa Maria di Baggio) intorno al 1400.

L’arrivo degli Olivetani a S.Vittore segnò un importante rinnovamento della vita spirituale e culturale ruotante intorno alla basilica, in linea con una produzione artistica fortemente debitrice del Rinascimento i monaci vollero adeguare il nuovo Monastero al loro gusto e alla grandiosità che l’importanza della congregazione a quel tempo imponeva.

La chiesa fortemente in rovina necessitava di essere ricostruita, il progetto fu affidato a Vincenzo Seregni[i] poi, in via definitiva a Galeazzo Alessi[ii], architetto in voga all’epoca che nel 1558 si era occupato della costruzione di Palazzo Marino.

 

Alla posa della prima pietra risalente al 1560, il Seregni figura comunque tra gli ingegneri sarebbe lui ad aver fornito i disegni per la nuova chiesa che parrebbe orientata in senso contrario al precedente edificio. Ma è con l’Alessi, attivo a S.Vittore dal 1570 al 1576, date in cui fu posta mano per il completo rinnovo del tempio, che la basilica assume le grandiose vesti della magnificenza rinascimentale. Il grande Monastero risulta compiuto nel 1598.

La ricchezza dell’ordine olivetano diede rapido compimento e rese il nuovo edificio sacro ammirato scrigno d’arte oltre che di culto, seppur non mancarono i rimpianti per l’antica basilica e il sacrificio della vicina rotonda di S.Gregorio che alla fine fu rasa al suolo.

Come fu demolita nel 1545 anche la piccola chiesetta parrocchiale di S. Martino, poi ricostruita in forme più semplici per i reclami della confraternita cui apparteneva. Nuovamente distrutta nel 1788, nell’ecatombe delle soppressioni giuseppine, la pala raffigurante S.Martino che riceve il mantello da Cristo, opera del pittore secentesco Giuseppe Vermiglio, fu definitivamente trasferita nella prima cappella di destra dedicata all’omonimo santo.

La facciata rimasta incompiuta racconta dell’invalso uso lombardo di dar spazio all’interno, alla sua costruzione e al suo rifinimento, prima di rivolgere attenzione alla realizzazione, e qualche volta anche allo studio, della facciata.

L’aspetto della facciata oggi è di disarmante semplicità, quasi grettezza, specialmente visto in contrasto con la sontuosità dell’interno.

L’idea finale, mai portata a compimento, secondo il disegno cinquecentesco facente parte della raccolta Bianconi e qui riprodotto (oggi conservato presso il Castello Sforzesco), prevedeva di completare la facciata, per mano dell’architetto Martino Bassi[iii], con un gigantesco pronao, costituito da dodici grandi colonne, sul quale si articolava tutto lo sviluppo della facciata.

Tracce di questo progetto sono riscontrabili in un leggero rilievo tracciato su tutta la facciata. L’idea di questo portico anteposto alla basilica non è paragonabile ai fastosi atri che nel Sei e Settecento si userà costruire davanti alle basiliche maggiori.

Il portico ideato dall’Alessi è più una derivazione dal nartece paleocristiano[iv], abbastanza inusitato nel Cinquecento. Forse non è un caso il ritorno a questa purezza primitiva del cristianesimo nel contesto di una basilica dalle origini così antiche.

I documenti[v] accennano anche a un colonnato architravato che doveva correre lungo tutto il perimetro dello spazio antistante.

All’attuale riscontro la fronte si presenta divisa in due ordini: quello inferiore determinato da dodici pilastri architravati reggenti una trabeazione (cui doveva corrispondere il portico, sopracitato, antistante l’ingresso); nella parte superiore quattro grandi lesene con teste di cherubino, in veste di capitelli, corrispondenti alla zona della navata centrale, i due pilastri centrali suddividono un’apertura semilunata.

La mancata coassialità tra questi quattro elementi architettonici con le lesene dell’ordine inferiore è una deficienza che forse l’Alessi si riprometteva di celare proprio con la realizzazione del portico antistante la facciata.

La mancata attuazione di quest’ultimo è attribuita, in realtà, dal Pica e dal Portaluppi a un tardivo pentimento rispetto alla riuscita dell’effetto prospettico che il pronao avrebbe creato; più precisamente con la sua costruzione si sarebbe creato un difetto visivo disturbante: il taglio della linea inclinata degli scivoli rettilinei che collegano il corpo centrale, concluso da un timpano alla sommità della fronte, alle sue parti laterali[vi].

Una gradinata settecentesca prepara l’acceso alla basilica che risulta leggermente sopraelevata rispetto alla piccola piazza antistante.

La copertura, il gioco plastico degli elementi, le nicchie e i riquadri interposti tra le colonne binate e infine, l’uso dei materiali: il cotto, la pietra e l’intonaco.

L’architettura classicamente grandiosa dell’Alessi trova nella straordinaria opulenza decorativa dell’interno un armonioso commento, commento in alcune parti suggerito dallo stesso architetto perugino che ne fornisce lo spunto negli ornati a intrecci geometrici e a meandro.

La decorazione ben aderisce alla rigorosa unità delle forme alessiane assecondandole, il risultato è l’impreziosirsi della compostezza dello spazio architettonico della basilica.

Affreschi, stucchi, legni intagliati e le molte tele propongono diverse chiavi di lettura oltre a costituire un significativo rimando al fastoso ed elegante sfarzo del Cinquecento genovese nonché a illustri precedenti come le opere presso la Certosa di Garegnano e la cupola della chiesa di Santa Maria della Passione di Milano.

La chiesa risulta divisa all’interno, secondo il consueto schema basilicale, in tre navate con sei cappelle per lato nelle navatelle.

La navata centrale, con la vasta volta con copertura a botte, è sorretta da grandi pilastri a pianta rettangolare cui s’addossano lesene corinzie e termina con la grande cupola al centro di un breve transetto che conclude i capocroce, alle estremità, con due absidi ricurve.

Un grande coro ligneo trova posto nell’abside terminale del profondo presbiterio.

La cupola dalla copertura conica, tipicamente lombarda, sorge sopra un tamburo cilindrico traforato da finestre a timpano triangolare e curvo alternate, culminante alla sommità da una lanterna sorretta a sua volta da colonnine corinzie. Riccamente decorata da Daniele Crespi e Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, con i suoi ottanta riquadri ospitanti figure angeliche, la cupola rimanda ai cieli aperti correggeschi in un alleggerimento della struttura architettonica i cui costoloni paiono privi di ogni finalità di sostegno.

Il miglior Seicento lombardo ben si esprime nelle cappelle laterali sopraccitate arricchitesi del gusto trasmodante ed eccessivo del barocco.

Alle sopraccitate cappelle lavorarono i migliori tra gli artisti presenti in Milano: il già citato Daniele Crespi, Francesco Cairo, Carlo Francesco Nuvolone, i Procaccini dalla prima all’ultima generazione – come non notare la straordinaria decorazione della volta della navata centrale opera di Ercole Procaccini il Giovane (oggetto dell’ultimo restauro) – infine, solo per citare i maggiori, Ambrogio Figino, già operante nei quadroni per la veneranda fabbrica del Duomo di Milano.

Fortemente provato dalle incursioni aeree, durante l’estate del 1943, e a seguito di quelle abbandonato anche dopo la fine delle ostilità, il Monastero fu sottoposto a reiterati saccheggi, al degrado dell’abbandono e della trascuratezza.

Solo l’intervento dello Stato, all’interno di un più ampio progetto di recupero e salvaguardia degli edifici monumentali che subirono danni bellici, consentì l’arrestarsi di una rovina incombente, completa e irreparabile.

Solo grazie a questo sollecito intervento, attuato d’urgenza, è stato possibile mettere l’edificio in condizione di resistere agli agenti atmosferici e salvare opere di grande pregio artistico ed archeologico.

Gli spazi del grande Monastero furono adibiti, nel 1947, alla fondazione del Museo della Scienza e della Tecnica. Da anni era sentita viva l’esigenza di un’istituzione volta a promuovere la conoscenza e illustrare le origini e gli aspetti del progresso tecnico e scientifico.

Ancora oggi il Museo oltre a ospitare numerose raccolte che testimoniano il progredire della scienza e del progresso in vari ambiti (la più ricca illustrazione dell’opera di Leonardo e il Museo Navale per citare le più importanti) è per la città di Milano un centro di cultura, luogo di convegno e di congressi nazionali e internazionali.

[i]    Vincenzo Seregno: Seregno (Mi) 1504 ca – Milano 1594, architetto, scultore per il Duomo di Milano (1537), dal 1555 nominato architetto della Fabbrica. Eseguì il chiostro di S.Sempliciano (1559), il Mausoleo di Giovanni del Conte (1558, in S.Lorenzo), nel 1561 il Palazzo dei Giureconsulti che rivela chiari contatti con l’Alessi, specialmente nelle soluzioni decorative. Infine la Certosa di Garegnano (1570-82). La sua opera occupa una posizione intermedia tra il classicismo rinascimentale bramantesco e il manierismo di P.Tibaldi)

[ii]    Galeazzo Alessi (Perugia 1512-72) architetto. Educatosi a Perugia, passò a Roma nel 1536, dove studiò le opere di Bramante e Antonio da Sangallo nei lavori della Rocca. Nel 1548 si trasferì a Genova, dove lavorò per la famiglia Sauli alla costruzione della Basilica di S.Maria di Carignano, che riprende nella pianta a croce greca, i tipi bramanteschi di S.Pietro. A partire dal 1550 partecipò all’elaborazione dei progetti per l’apertura della Strada Nuova (oggi via Garibaldi) e costruì le Ville Cambiaso e Sauli, le cui soluzioni furono di fondamentale importanza per il rinnovamento urbanistico – oltre che paesaggistico – di Genova. Dal 1553 soggiornò saltuariamente anche a Milano, impegnato nella costruzione di Palazzo Marino, della chiesa di S.Barnaba e nella progettazione della facciata di S.Maria presso S.Celso. Negli ultimi anni di vita fece ritorno in Umbria. Notevole fu l’influsso esercitato dall’Alessi sull’ambiente genovese, nel quale egli introdusse le forme articolate e plastiche del Cinquecento romano e rilevanti giochi chiaroscurali. Nelle opere milanesi giunse a elaborare una sintassi architettonica in cui gli elementi strutturali e quelli decorativi , componendosi in maniera assai complessa, assumono pari valore)

[iii]    Martino Bassi (Seregno (MI) 1546 -Milano 1591) architetto. Oltre che per i suoi lavori nelle chiese milanesi (fra cui il tiburio di S.Lorenzo, progettato nel 1557, il completamento della facciata di S.Maria presso S.Celso, gli interventi per il Duomo, S.Fedele, S.Sebastiano, S.Maria della Passione, è noto per lo scritto Dispareri in materia di architettura (1572).

[iv]   Portico caratteristico delle basiliche paleocristiane e destinato a particolari gruppi di fedeli o ai catecumeni, voce nartece in R.Bossaglia, Dizionario di terminologia di storia dell’arte, Milano, Edizioni Bignami, 1984) Il fatto che il portico fosse architravato richiama alla mente i nartece antichi di S.Paolo e S.Lorenzo fuori le mura e le altre basiliche latine dei primi tempi cristiani.

[v]    La chiesa di S.Vittore, in C.Torre Il ritratto di Milano, Milano 1674, 2^ed.1714, pp.713-714.

[vi]          Portaluppi, 1934, pp.77-78. Il mancato completamento del progetto è considerato dall’autore un fatto positivo, l’accorgimento preventivo di un errore, una sorta di correzione in corsa, sebbene questo comporti, di contro, l’incompiutezza della facciata della basilica – ndr.